L'Avv. Ezio Bonanni commenta la sentenza di Cassazione Penale, Sez. IV, 12.11.2019, n. 45935-2019, ud. 13.06.2019 riguardo il processo ILVA amianto.
L’amianto (αμίαντος) o asbesto (άσβεστος), cioè i silicati fibrosi capaci di suddividersi longitudinalmente in fibrille lunghe e sempre più sottili, fino a raggiungere il diametro di 0,25 ųm (1300 volte più sottile di un capello umano).
Provocano infiammazione (asbestosi, placche pleuriche e ispessimenti pleurici, con complicazioni cardiovascolari e cardiocircolatorie), e cancro (mesotelioma, tumore del polmone, alla laringe e alle ovaie, e allo stato attuale delle conoscenze anche i tumori del tratto digerente - faringe, stomaco e colon), con tempi di latenza che raggiungono anche i 50 anni.
L’amianto è quindi il big killer che provoca tutti gli anni più di 200.000 decessi, come stimato dall'OMS nella relazione 'Asbestos' (27 settembre 2024), solo per tre delle patologie asbesto correlate (mesotelioma, asbestosi e tumori polmonari), solo tra quelle di origine professionale, e senza tener conto di quelle extraprofessionali, e del fatto che non in tutti i Paesi ci sono delle rilevazioni attendibili, e di cui in Italia almeno 6.000.
L’archivio del Registro nazionale comprende, a dicembre del 2017, informazioni relative a 27.356 casi di mesotelioma maligno (MM) diagnosticati dal 1993 al 2015, rilevati in ragione di un sistema di ricerca attiva e di analisi standardizzata delle storie professionali, residenziali e familiari dei soggetti ammalati: è la punta dell’iceberg, perché occorre tener conto anche delle altre patologie asbesto correlate, identificate dallo IARC e dal comune ed unanime consenso scientifico.
Negli ultimi anni, vi è un trend di continuo aumento dei casi di tumore del mesotelio, e di altre patologie asbesto correlate. Questa situazione si spiega con il fatto che l’Italia è stato uno dei maggiori produttori ed utilizzatori di materiali di amianto (per un totale di 2.748.550 tonnellate nel periodo dal 1945 fino al 1992), il secondo in Europa, dopo l’Unione Sovietica.
La L. 257/92 (Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto) ha limitato il divieto alla sola “estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto, prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto” (art. 1.co. 2), a partire dal 365° giorno dall’entrata in vigore della legge, con deroga al 28.04.1994, fino ad esaurimento scorte e “per una quantità massima di 800 kg e non oltre il 31.10.2000” (art. 1 co. 2).
In questo quadro fattuale e normativo, e tenendo conto che fino ai tempi più recenti vi è stata una condizione di rischio con esposizione per più di 3.200.000 lavoratori, non è singolare il continuo aumento di casi di patologie asbesto correlate.
L’Osservatorio Nazionale Amianto ha auspicato tutta una serie di iniziative, dalle detrazioni fiscali, fino al ricorso ai fondi europei, e alla semplificazione burocratica, che fanno parte anche della linea di azione del Ministro dell’ambiente, Generale Sergio Costa, che ha istituito una speciale commissione per il riordino della normativa, di cui fa parte anche l’Avv Ezio Bonanni al fine di perseguire:
C’è stata e c’è l’impegno di cittadini e lavoratori, operai ed impiegati, subordinati ed autonomi, uomini e donne, che si sono impegnati e si impegnano con le associazioni di categoria, per tutelare la salute e chiedere la giustizia per le vittime e i loro famigliari: un’epopea lunga più di 100 anni, nel quale si inserisce anche la vicenda legata all’ILVA di Taranto, tristemente nota per la violazione sistematica di tutte le misure di sicurezza, in una storia di omissioni, collusioni e responsabilità che vanno ben oltre quelle ascrivibili a coloro che hanno rivestito la carica di amministratori o dirigenti dell’ILVA e in precedenza dell’Italsider.
Chiamano in causa direttamente lo Stato, per avere creato, come in una cattedrale nel deserto, l’acciaieria più grande d’Europa, privilegiando la produzione e il profitto alla salute umana, e chiudendo tutti e due gli occhi di fronte alle sistematiche violazioni degli obblighi di sicurezza che sono proseguite anche quando c’è stata la privatizzazione.
Il processo ILVA amianto si inserisce, dunque, in questa vicenda tutta italiana, tragica e drammatica, che ha colpito e colpisce i lavoratori del passato, del presente e probabilmente del futuro, semmai ci sarà, fino a quando non ci sarà una presa di coscienza collettiva ed istituzionale, e le doverose misure di ripristino della salubrità dell’ambiente e di giusto indennizzo e ristoro dei danni subiti dai lavoratori e dalle loro famiglie.
L’acciaieria più grande d’Europa è in realtà l’epicentro della concentrazione di una serie di cancerogeni, dai metalli pesanti fino all’amianto, che è il big killer del terzo millennio.
Anche tra i lavoratori dell’ILVA ha provocato una vera e propria epidemia di mesoteliomi e di altre patologie asbesto correlate. In questo contesto, si inseriscono tutta una serie di indagini che hanno chiamato in causa coloro che a vario titolo si sono succeduti nella dirigenza e nell’amministrazione delle società che nel tempo hanno gestito il sito ex Italsider.
La Corte di Cassazione, IV sezione penale, con la sentenza n. 45935/2019, del 12.11.2019 (ud. 13.06.2019), si è pronunciata in tema di responsabilità penale per omicidio colposo ex art. 589 c.p. e "Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro" (art. 437 c.p.), con riferimento all’imputazione per la morte di decine di lavoratori esposti ad amianto nel sito ILVA di Taranto.
La vicenda processuale trae origine dalla contestazione dei comportamenti attivi e omissivi dei titolari della posizione di garanzia, nello stabilimento ILVA amianto di Taranto, di cui S. e N. erano stati direttori, rispettivamente dal 1978 al 31.12.1982 e dal 31.12.1982 al 31.12.1984, e l' A., vicedirettore, dal 1983 al 31.12.1984 e direttore unico sino al 30.6.1987, per l’evento mesotelioma e successivo decesso di numerosi lavoratori del sito siderurgico, che l’INAIL ha riconosciuto come di origine professionale, e con la contestazione del reato di cui all’art. 589 c.p. e/o 437 c.p., per "Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro" (art. 437 c.p.).
Con riferimento al fenomeno epidemico di patologie asbesto correlate (mesotelioma, tumore del polmone, etc.), tra coloro che hanno svolto attività di lavorativa nello stabilimento ILVA di Taranto, la Procura della Repubblica ha sottoposto a procedimento penale 30 persone che si sono succedute nella posizione di garanzia (datore di lavoro o dirigente).
La Procura della Repubblica di Taranto ha formulato le imputazioni con due distinti procedimenti:
Il Tribunale di Taranto, con sentenza del 23.05.2014, ha condannato i 27 imputati, ritenendoli responsabili di omicidio colposo plurimo (anche se alcuni degli imputati sono stati poi assolti per specifici casi) e del reato di cui all’art. 437 c.p. aggravato dal disastro colposo. La pena detentiva è stata accompagnata dalla condanna al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili. Gli altri 3 imputati sono stati assolti, uno perché il fatto non costituisce reato, e gli altri due per morte del reo.
Il Tribunale di Taranto, nella sua motivazione, ha reso ragione dell’affermazione della penale responsabilità dei 27 imputati per
La Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha riformato parzialmente la sentenza del Tribunale di Taranto e ha confermato la condanna solo nei confronti degli imputati e solo per alcuni dei decessi loro originariamente ascritti. Con una varietà di formule alcuni degli imputati sono stati assolti. Il reato di cui all’art. 437 c.p. è stato dichiarato prescritto. La Corte di Appello ha confermato:
La Corte territoriale ha valorizzato le risultanze della prova testimoniale, che ha confermato l’utilizzo di elevata quantità di amianto, anche friabile, e l’assenza di strumenti di prevenzione tecnica e di protezione individuale, da cui ha attinto la prova della condizione del rischio, tanto da permettere, tenendo conto della legge della causalità generale, ormai di carattere universale (teoria multistadio della cancerogenesi - 3^ Italian Consensus Conferenze on Maignant Mesothelioma of the Pleura, pubblicato nel 2015), di poter confermare l’evento e il nesso causale, con riferimento ai molti casi di decessi, ascritti quindi alle condotte attive e omissive dei titolari delle posizioni di garanzia, prevedibili ed evitabili (art. 43 c.p.).
La Corte territoriale ha giustificato l’elevata credibilità razionale della conclusione della riconducibilità dell’evento, anche quello di cui al reato di cui all’art. 437 c.p. (dichiarato prescritto), sulla base dell’aumento dell’incidenza di casi, e dell’anticipazione dei tempi di latenza e di accelerazione del decorso, in proporzione all’entità dell’esposizione per intensità e durata, tale da dimostrare la rilevanza della mancata predisposizione degli strumenti di prevenzione tecnica e di protezione individuale.
La Corte territoriale ha confermato che il c.d. periodo di induzione fosse inversamente proporzionale all’entità dell’esposizione, con alcune determinazioni temporali. L'esperto ha tratto la conclusione che tutte le esposizioni precedenti di almeno 20 anni le diagnosi sono causalmente rilevanti mentre quelle cadenti negli ultimi 6-10 anni certamente non lo sono; per quelle comprese nel periodo intermedio (tra i venti ed i sei/dieci anni dalla diagnosi) "l'effetto è plausibile con criterio probabilistico". Applicando tali premesse la Corte di Appello ha attribuito i decessi degli undici lavoratori sopra menzionati allo S., al N. e all'A..
La Corte di Appello ha confermato l’elemento soggettivo del reato per prevedibilità ed evitabilità, tenendo conto della possibilità di utilizzare materiali alternativi all’amianto, di predisporre gli strumenti di cui agli artt. 4, 19, 20 e 21 del D.P.R. 303/56, e di dotare il personale di maschere respiratorie (artt. 377 e 387 del D.P.R. 547/55), e degli strumenti per la tutela della salute così come stabilito dall’art. 2087 c.c. e di attenersi ai canoni di diligenza, prudenza e perizia, che se adottati avrebbero ridotto significativamente l’incidenza e/o l’abbreviazione del tempo di latenza e l’accelerazione del decorso delle patologie, e quindi quantomeno di non anticipare l’evento morte.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce ha impugnato l’assoluzione degli imputati per prescrizione del reato di cui all’art. 437 c.p., e ha addotto a sostegno delle sue richieste di condanna, i seguenti motivi.
1. La violazione dell’art. 157 c.p. e/o il vizio di motivazione per la pronuncia di prescrizione del reato di cui all’art. 437 c.p., comma 2, in favore degli imputati S., N. e A.. Il Procuratore Generale si duole della declaratoria di prescrizione del reato poiché il momento consumativo è quello della morte di ogni singolo lavoratore a causa della malattia-infortunio (mesotelioma), piuttosto che quello dell’esposizione ovvero dell’insorgenza della patologia.
Il Procuratore Generale ha ritenuto che l’evento si concretizzi solo quando le conseguenze dannose del delitto sono giunte alla loro massima espressione, ovvero con la consumazione, che si materializza con la morte di ogni singolo lavoratore, ovvero con la sussistenza di quel fenomeno epidemico di patologie asbesto correlate, a fronte della condizione di rischio per lo stabilimento ancora non chiuso, assumendo a conforto Cass. Sez. 1 n. 7941/2014, che con riferimento alla analoga fattispecie di cui all’art. 434 c.p., 2° co., ha sostenuto che nel reato aggravato dall'evento la prescrizione decorre dal momento in cui si è verificato, ovvero dal momento della morte dei dipendenti, con riferimento alla data di chiusura dello stabilimento.
In quel caso (Eternit I), la Corte di Cassazione ha valorizzato la data di chiusura degli stabilimenti Eternit in Italia, e dunque la prescrizione è decorsa dalla data della loro chiusura che segna il termine ultimo di perduranza della condotta, senza tener conto dell’evento morte, che costituisce soltanto l’aggravante del reato che si consuma con l’evento costituito dal rischio per la pubblica incolumità, che è il bene protetto dalla norma penale incriminatrice (dell’art. 437 c.p. al pari di quella di cui all’art. 434 c.p., e di cui l’evento costituisce soltanto un’aggravante, estranea alla fattispecie tipica del reato).
2. Estinzione del reato di cui all’art. 437 c.p. 1° co., contestato a C.L.. Anche in questo caso, secondo il Procuratore Generale rileverebbe l’evento morte, come momento in cui il reato si consuma.
3. Violazione di legge e vizio della motivazione per l’assoluzione di R.F.A., per ritenuta assenza della posizione di garanzia.
La sentenza è stata impugnata anche dagli imputati. N.S. ha impugnato la sentenza della Corte di Appello, per insussistenza del nesso causale, per carenza di prova rigorosa del rischio amianto, non quantificato in modo specifico nella sua entità, per assenza di dati strumentali di rilevazione dell’aerodispersione e della presenza di fibre negli ambienti lavorativi. In più l’imputato ha lamentato la non congruità e logicità della motivazione, e l’assenza della certezza della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
In più, l’imputato, sostiene che all’epoca dei fatti, vi era carenza di norme cautelari specifiche e del divieto di esposizione ad amianto. Con il terzo motivo, l’imputato ha chiesto l’annullamento della sentenza poiché vi era assenza di limiti di soglia, ovvero per il fatto che non essendoci un limite al di sotto del quale il rischio si annulla, e assumendo che anche la riduzione dell’esposizione, per effetto dell’adempimento delle regole cautelari, non sarebbe stata efficace per evitare l’insorgenza del mesotelioma che ha provocato la morte dei lavoratori.
Infatti non sarebbe stato possibile impedire l’evento, che si sarebbe verificato ugualmente, sul presupposto dell’assenza di certezza della c.d. accelerazione. Con il quarto e il quinto motivo lamenta la insussistenza dell’elemento soggettivo.
Con il primo motivo, l’imputato A.A. (i) ha contestato la sua qualità di titolare della posizione di garanzia, ovvero ha sostenuto che l’evento non gli fosse addebitabile perché privo di poteri indispensabili per poter evitare l’evento; (ii) e con il secondo motivo, ha contestato il nesso causale, adducendo tra l’altro l’assenza di prova di un utilizzo abnorme di amianto, tale da poter incidere sul processo causale; (iii) la violazione delle norme di cui agli artt. 42 e 43 c.p. e del D.Lgs. n. 277 del 1991, art. 59, in relazione al D.P.R. n. 303 del 1956, nell'affermare la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.
L’imputato ha sostenuto altresì che sarebbe stato violato anche l’art. 437 c.p., commi 1 e 2 in relazione all'art. 2 Cost., comma 1 e art. 25 Cost., comma 2, ed il vizio della motivazione. Lo stesso imputato ha ulteriormente impugnato la decisione di primo grado con un ulteriore ricorso per cassazione con altro difensore e il cui contenuto è sovrapponibile al primo, e che centra la sua doglianza sulla presunta violazione dell’art. 43 c.p., perché nega la colpa, non solo per la presunta assenza di prova di violazione delle regole cautelari, ma anche per la carenza di prevedibilità ed evitabilità degli eventi, e denuncia il vizio di motivazione, e ancora la violazione dell'art. 589 c.p., co. 2, anche in relazione all’art. 7 CEDU.
La Corte tratta prima di tutto i ricorsi degli imputati A. e N., con evidenza della specificità di ciascun ricorso. La Corte passa alla disamina del ricorso dell’imputato A..
L’imputato si duole dell’affermazione della conferma in secondo grado della penale responsabilità a fronte della ritenuta sussistenza della posizione di garanzia (1.5.2), a fronte della presunta insussistenza della prova degli effettivi poteri dispositivi adeguati all’adozione delle misure richieste dalla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.
La Corte, nella sentenza in commento, disarticola la doglianza dell’imputato richiamando la precedente giurisprudenza di legittimità, tra cui Sez. 5, n. 12936 del 01/04/1977 - dep. 13/10/1977, Mazzarello, Rv. 137102, e conferma che sussiste la posizione di garanzia.
Sulla base dei principi fatti propri dalla Suprema Corte di Cassazione, in caso di evento colposo per inosservanza degli infortuni sul lavoro, e quindi anche per malattia-infortunio, i vertici dell’organizzazione, sono non responsabili penalmente solo se dimostrano che all’interno dell’impresa esiste una rigorosa, specifica e puntuale divisione delle mansioni (Sez. 4, n. 4790 del 06/01/1983 - dep. 25/05/1983, Ghidini, Rv. 159194).
Il dirigente ha le attribuzioni per cui deve esercitare o comunque ha il potere di controllo continuo ed una efficace vigilanza, allo scopo di fare rispettare le disposizioni impartite dal datore di lavoro (Sez. 4, n. 5858 del 02/02/1981 - dep. 15/06/1981, Comini, Rv. 149346). In assenza di distinzione, tutti i dirigenti sono responsabili, per gli eventi che integrano fattispecie penali e in particolare quelle di cui agli artt. 589 e 437 c.p. (Sez. 4, n. 10039 del 09/04/1981 - dep. 07/11/1981, Capra, Rv. 150885; e più recentemente Cassazione, IV sezione penale, 38991/2010), il tutto con riferimento al caso concreto e agli specifici poteri (Sez. 3, n. 2625 del 04/09/1981 - dep. 10/03/1982, Colonnese, Rv. 152694).
La Corte, quindi, in modo coerente con la precedente giurisprudenza (Cassazione, IV sezione penale, 38991/2010 – capo 14, ed ex multis): “In definitiva, anche in presenza di una delega di funzioni ad uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa ed organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro”.
Ha confermato la sussistenza della posizione di garanzia, con riferimento alla presa in carico e/o ai poteri e alle disponibilità della dirigenza di evitare la condizione di rischio che si è poi concretizzata con la morte dei singoli lavoratori e con il fenomeno epidemico.
La posizione rigorosa della Corte di Cassazione, è legittimata dall’esigenza di evitare che sia "additato alla giustizia penale un eventuale capro espiatorio di basso livello, in sostituzione del dominus e indipendentemente dall’effettiva attribuzione di poteri’ anche se parte della dottrina sottolinea la necessità di ‘proteggere il soggetto al vertice da una eccessiva esposizione a rischio penale".
La "censura del ricorrente risulta infondata", perché la Corte ha confermato che l’imputato era dotato di "tutti i poteri connessi al ruolo; la contestazione di tale deduzione è stata operata unicamente sul piano astratto, senza offrire ai giudici di merito alcuna indicazione delle concrete circostanze che nel caso specifico avrebbero scisso qualifica e compenetrati poteri" (capo 3.1, pag. 20 della sentenza).
L’imputato contesta:
La Corte di Cassazione conferma la logicità della ritenuta condizione di rischio amianto nello stabilimento siderurgico di Taranto, accertato (i) su base epidemiologica e (ii) con la prova testimoniale (cfr. ex multis, Sez. 4, n. 26562 del 26/05/2015, dep. 24/06/2015, Bertoldo, Rv. 263876).
Quest'ultima è ritenuta rilevante (capo 3.2, pag. 21), sulla base della motivazione del Giudice di merito (Sez. 3, n. 30135 del 05/04/2017, dep. 15/06/2017, Boschi, Rv. 270325), e delle evidenze visive (cfr. Sez. 3, n. 12471 del 15/12/2011, dep. 03/04/2012, Bocini, Rv. 252226), e perché questi dati di fatto, da considerare "unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa (Sez. 3, n. 30890 del 23/06/2015, dep. 16/07/2015, Cappellini e altro, Rv. 264251)", che ha causato l’evento e dunque la lesione dei beni protetti dalle norme penali incriminatrici, prime fra tutte quella di cui agli artt. 589 c.p. e/o 437 c.p..
La Corte esclude che siano state violate le norme di legge (artt. 40 e 41 c.p.), poiché l’esposizione professionale, in assenza di cautele, è confermata, anche senza dati analitici, ovvero campionamenti, anche sulla base della linearità, logicità e congruità della motivazione, con riferimento alle emergenze processuali (pag. 22 della sentenza), dell’incidenza epidemiologica dei casi di mesotelioma, e di altri cancri, e di asbestosi e altre infiammazioni, riconducibili all’agente eziologico asbesto, con conferma dell’elevata esposizione professionale delle vittime, anche in assenza di un decorso alternativo (fermo restando che anche ove ci fossero state delle esposizioni extraprofessionali, in ogni caso il nesso causale è confermato ex art. 41 c.p.).
La censura è generica, e risultano confermate le condizioni di rischio a fronte delle quali l’evento può essere ricondotto all’esposizione professionale nello stabilimento siderurgico di Taranto, per tutte le vittime di patologie asbesto correlate (3.2, pag. 22 della sentenza). Non è in dubbio anche sulla base del contenuto dei ricorsi "la correlazione tra l'inalazione di fibre di amianto aerodisperse e il mesotelioma pleurico" deve trovare conferma (3.3, pag. 22).
Nella sentenza della Suprema Corte si rileva che "non è in discussione che nel processo sia stata acquisita l'esistenza di una legge scientifica secondo la quale l'amianto è causa del mesotelioma; o, se si preferisce, che il mesotelioma sia malattia asbesto-correlata. I rilievi dei ricorrenti si concentrano sulla motivazione in ordine all'accertamento della cd. causalità individuale; ovvero all'attribuzione del singolo decesso all'esposizione della persona offesa durante l'intero periodo di lavoro presso l'ILVA (piuttosto che a fattori alternativi) e specificamente a quella avutasi durante il tempo in cui il N. e l' A. assunsero la posizione di garanzia".
Il cuore del problema è quello della causalità individuale, ovvero della esplicazione del decorso causale di ogni singola patologia, riferita anche ai distinti periodi lavorativi, in alcuni casi anche limitati, per i quali ogni singolo deteneva la posizione di garanzia, e della imputabilità dell’evento ad ognuno di loro, tenendo presente il periodo di iniziazione e promozione (latenza), della patologia.
Sul punto i ricorrenti lamentano il difetto di legittimità della decisione della Corte di Appello per dissociazione dai principi posti dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Gli imputati hanno lamentato l’apparenza della motivazione in ordine alle causalità materiale generale, con ciò intendendosi la derivazione dall'esposizione presso ILVA delle malattie patite dai lavoratori. Per il secondo aspetto, si denuncia che la Corte di Appello avrebbe ritenuto la legge scientifica, teoria multistadio della cancerogenesi, ovvero l’effetto acceleratore che ne discende, acquisito anche dopo l'inizio del processo carcinogenetico.
La Corte di Cassazione ha richiamato i canoni e i principi dell’esercizio di giurisdizione, che, per quanto riguarda le malattie professionali e tutti gli altri giudizi dove si presuppone la risoluzione di questioni medico legali e tecniche, debbono essere applicate le leggi scientifiche, meglio se di carattere universale, in subordine anche probabilistiche, poiché il giudicante non è il suo creatore bensì il suo fruitore (Cassazione, IV sezione penale, 38991/2010; e Cassazione, IV sezione penale, 43786/2010).
Sulla base di un’attenta disamina e valutazione di tutti i fatti, e del processo induttivo e deduttivo, e per abduzione, con il tentativo di falsificazione, giungere alle conclusioni, ovvero a rendere il giudizio che per portare alla condanna dell’imputato, deve essere basato sui criteri di elevata probabilità logica e credibilità razionale, tanto da giungere alla certezza processuale della colpevolezza, oltre ogni ragionevole dubbio.
La Corte di Cassazione (da pag. 23 a pag. 24) ha sintetizzato la regola di giudizio che attinge dal suo precedente insegnamento (Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 - dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri, Rv. 270384-87, risalente a Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010 - dep. 13/12/2010, Cozzini e altri, Rv. 248943), poi sviluppata da Corte di Cassazione, Sez. IV - sentenza n. 38991 del 10 giugno 2010 ud. - dep. 4 novembre 2010 - imp. Quaglierini e altri - rv. 248853.
Ha ripercorso in modo analitico i termini e le modalità per integrare i profili di legittimità dell’accertamento:
“non è il giudice ad elaborare la legge scientifica, essa deve essere allegata ed asseverata dalle parti; sarà compito del giudice, con la razionalità della sua motivazione, valutarne l'attendibilità, la norma penale, per la sua applicazione, non fa rinvio al sapere scientifico, in quanto esso è utilizzato a soli fini probatori”.
Ha osservato che “partendo dal presupposto che in ambito scientifico ben difficilmente c'è unitarietà di vedute e che non è consentito al giudice defilarsi con un non liquet, è suo compito dare conto con la motivazione, della legge scientifica che ritiene più convincente ed idonea o meno a spiegare l'efficacia causale di una determinata condotta, tenendo sempre conto di tre parametri di valutazione:
Poi ha concluso che “nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al sapere scientifico, la funzione strumentale e probatoria di quest'ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti. Una opinione ricostruttiva fondata sulla mera opinione del giudice attribuirebbe a questi, in modo inaccettabile, la funzione di elaborazione della legge scientifica e non invece, come consentito, della sola utilizzazione" (Cassazione IV sez. pen., 38991/2010).
La Corte di Cassazione, con questa sentenza, conferma il criterio epistemologico già assunto in precedenza (Cassazione, IV sezione penale, 43786/2010), e pertanto, e tenendo conto dell’effetto acceleratore (Cassazione, IV sezione penale 3615/2016 ed ex multis), in I ed in II° vi è stata la conferma del nesso causale e della penale responsabilità degli imputati, sulla base del criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, espresso in termini di probabilità logica e credibilità razionale.
La Corte di Cassazione, IV sezione penale, 43786/2010, – richiamata a pag. 24 della sentenza in commento – pone le basi epistemologiche per giungere a formulare un giudizio in termini di alta probabilità logica e credibilità razionale, anche in assenza di una legge scientifica universale, sulla base delle c.d. “abduzione selettiva”:
“Occorre allora comprendere come noi articoliamo il ragionamento probatorio quando si prospettano diverse alternative ipotesi esplicative.
Se guardiamo al nostro agire ideativo, sia nel mondo della vita che in quello della giurisprudenza, constatiamo che con istintiva immediatezza noi ci interroghiamo su quali affidabili generalizzazioni esplicative possano essere rilevanti nel caso concreto; e cerchiamo sul terreno, cioè nell'ambito delle prove disponibili, i segni, i fatti, che solitamente si accompagnano a ciascun ipotizzabile fattore causale e la cui presenza o assenza può quindi accreditare o confutare le diverse ipotesi prospettate. Il ragionamento probatorio è dunque di tipo ipotetico, congetturale: ciascuna ipotesi causale viene messa a confronto, in chiave critica, con le particolarità del caso concreto che potranno corroborarla o falsificarla.
Sono le contingenze concrete del fatto storico, i segni che noi vi scorgiamo, che possono in alcuni casi consentire di risolvere il dubbio e di selezionare una accreditata ipotesi eziologia; a meno che dai reperti fattuali tragga alimento un'alternativa, plausibile ipotesi esplicativa. Dunque, riassuntivamente può affermarsi che scopo dell'indagine è la verifica critica in ordine all'ipotesi che riguarda la riferibilità di un evento concreto ad una spiegazione racchiusa in una legge scientifica: un tipo di ragionamento che qualche studioso denomina efficacemente abduzione selettiva”.
Quindi, anche a voler assumere il carattere non universale della legge scientifica (teoria multistadio della cancerogenesi e dose dipendenza) di causalità generale, è possibile utilizzarla quale legge esplicativa sul caso concreto (causalità individuale), ed eventualmente giungere, come in questo caso, alla conferma della responsabilità penale, per sussistenza del nesso causale, oltre ogni ragionevole dubbio, con il criterio della probabilità logica e della credibilità razionale:
“L'indicata struttura del ragionamento consente di ribadire che non è decisivo che la generalizzazione esprima una relazione immancabile tra condizione ed evento o invece solo una relazione di tipo probabilistico. In realtà sia le leggi universali che quelle probabilistiche possono essere poste alla base della spiegazione di un evento all'esito del ragionamento ipotetico cui si è fatto cenno”.
Ci sono ulteriori fattori rilevanti: “Sempre per restare al campo delle esposizioni professionali di cui ci si occupa in questo giudizio, nel caso in cui si riscontri un'affezione, come ad esempio il tumore polmonare, che può essere ricondotta a diversi fattori causali come l'esposizione al fumo di tabacco o a numerose altre sostanze oncogene, l'indagine causale dovrà tentare di indagare nella vita del paziente e studiare i reperti biologici per cercare di individuare quale sia stato l'agente che ha innescato il processo carcinogenetico”.
Per cui "induzione e abduzione si intrecciano dialetticamente e l’induzione… costituisce il banco di prova critica intorno all’ipotesi esplicativa", poiché "l'analisi dei diversi ragionamenti probatori deve essere completata proponendo un breve accenno sull'inferenza predittiva. Come si è anticipato, il giudice penale svolge tale tipo di ragionamento di carattere previsionale, anche se si rivolge al passato, quando, per restare alle problematiche eziologiche, si interroga, nell'ambito della causalità omissiva, in ordine all'evitabilità dell'evento per effetto delle condotte doverose mancate. Non deve in primo luogo stupire che, con riguardo ad eventi passati, si faccia riferimento all'idea di previsione, giacche' essa è caratterizzata dal fatto di inferire, predire l'ignoto dal noto.
Occorre inoltre chiarire che anche nell'ambito della causalità omissiva noi abbiamo comunque un fatto, nel nostro campo l'andamento di una patologia, di cui dobbiamo in primo luogo dare una spiegazione complessiva prima di interrogarci sul ruolo causale dell'omissione che ci interessa. In questa prima parte dell'indagine causale noi utilizziamo quasi sempre il modello esplicativo ipotetico sin qui esaminato. Entro il complessivo contesto fattuale così investigato dobbiamo poi inserire la condotta umana doverosa che è invece mancata: si tratta di un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato, cioè di una prognosi.
Noi ci interroghiamo su ciò che sarebbe accaduto se l'agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. In questo ragionamento insorgono peculiari difficoltà. L'omissione costituisce un nulla dal punto di vista naturalistico, sicché nel giudizio controfattuale noi inseriamo una condotta astratta, idealizzata. Inoltre in tale contesto, evidentemente, per prevedere ciò che sarebbe accaduto nel singolo caso oggetto del processo e' di grande importanza conoscere cosa accade nei casi simili. Occorre dunque rivolgersi alle generalizzazioni formatesi a proposito del nesso causale che c'interessa.
Qui noi utilizziamo le generalizzazioni scientifiche in chiave eminentemente deduttiva e, per tale ragione, è assai importante il coefficiente probabilistico (parliamo di probabilità statistica) della regolarità causale che utilizziamo. La misura di certezza o d'incertezza che caratterizza la legge scientifica si trasferisce, infatti, dalla premessa maggiore alla conclusione del sillogismo probatorio”.
Per l’accertamento del nesso eziologico è indispensabile la legge di copertura scientifica di portata universale e contenuto rigoroso, attraverso il processo di sussunzione sotto le leggi scientifiche, ai fini della verifica della sussistenza del nesso di causalità, il cui giudizio presuppone la elevata probabilità logica, perché in campo biomedico “spesso non disponiamo affatto di generalizzazioni affidabili ma solo di lacunose ed in qualche caso anche contraddittorie informazioni statistiche, che talvolta erroneamente chiamiamo leggi scientifiche. Ma anche quando disponiamo di informazioni sufficientemente esaustive ed affidabili, esse hanno carattere molto generale e non appaiono focalizzate sui tratti della specifica vicenda oggetto del processo.
Una descrizione dell'evento non priva di qualche specificità ci farà trovare di fronte all'assenza di informazioni pertinenti. Ad esempio, sappiamo che una determinata percentuale di persone sopravvive dopo essere stata curata a seguito di infarto del miocardio, ma non sappiamo quale esatto peso vi abbiano i diversi fattori di rischio quali l'età, il sesso, le condizioni generali e numerose altre variabili individuali. La conclusione è che noi non disponiamo quasi mai di uno strumento deduttivo sufficientemente affidabile. Tale situazione, che rischia di frustrare in radice le inferenze della causalità omissiva, apre la strada all'introduzione di un aggiuntivo momento di tipo induttivo nella complessiva argomentazione probatoria.
In breve, le generalizzazioni scientifiche disponibili, di cui è già stata mostrata la vocazione, nel contesto in esame, all'utilizzazione in chiave deduttiva, vengono integrate da un passaggio di tipo induttivo elaborato dal giudice sulla base delle particolarità del caso concreto.
Perciò, per restare all'esempio dell'infarto, se il paziente era giovane, l'infarto non devastante, le condizioni generali buone, si può giungere a ritenere che diagnosi e trattamento tempestivi avrebbero evitato l'evento. La valutazione finale si esprimerà anche qui in termini di elevata probabilità logica, secondo l'insegnamento delle Sezioni unite, ovvero di corroborazione dell'ipotesi: è ciò che accade oggi nella prassi.
In breve le Sezioni unite hanno enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva e, di fronte alle già accennate difficoltà insite nel controfattuale della causalità omissiva, hanno indicato un itinerario probatorio percorribile: il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario, si fonda anche sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e culmina nel già detto giudizio di elevata probabilità logica.
Insomma, le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto, quando l'apprezzamento conclusivo può essere espresso in termini di elevata probabilità logica. È il piano processuale che, richiedendo un approccio valutativo, può in alcuni casi consentire di metabolizzare la misura d'incertezza che spesso si riscontra nei giudizi della giurisprudenza, particolarmente nell'ambito biomedico di cui qui ci si occupa. Il tramite è costituito da già indicato concetto di probabilità logica che, come pure si è visto, non consente rigide quantificazioni numeriche”.
L'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove" (capitolo 16).
Si è aggiunto che "il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall'apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all'indipendenza di giudizio dell'esperto". La corretta conduzione di tale verifica rifluisce sulla "logica correttezza delle inferenze che vengono elaborate facendo leva, appunto, sulle generalizzazioni esplicative elaborate dalla scienza".
La Corte di Appello di Lecce, nel formulare il suo giudizio, non può dunque disconoscere la c.d. teoria dell’accelerazione, in forza della quale “la latenza diminuisce con l’incremento dell’esposizione. Si tratta di una legge scientifica sufficientemente radicata nella comunità scientifica e di carattere universale. Non esiste una esposizione irrilevante. Studi accreditati indicano che la latenza minima è di circa 15 anni e di 32 anni quella media. Inoltre, l’esposizione lavorativa implica una latenza più breve … Sono rilevanti non solo le esposizioni iniziali che conducono inizialmente nel processo cancerogenetico, ma rilevano pure quelle successive fino all’induzione della patologia, dotate di effetto acceleratore, appunto e di abbreviazione, quindi, della latenza.
Interessa inoltre comprendere se, eventualmente, si tratti di legge universale o probabilistica. occorre rammentare che questa Corte ha avuto modo di fornire indicazioni metodologiche proprio con riguardo a situazioni del genere di quella in esame (Sez 4, n. 18933 del 27/02/2014, Rv. 262139)”, per cui, nel caso di specie, è dimostrata la riconducibilità dell’evento morte alle condotte attive e omissive ai titolari delle posizioni di garanzia, anche se rimangono da identificare e confermare le responsabilità sulle specifiche posizioni.
La Corte di Appello di Lecce accoglie la teoria multistadio o della dose cumulativa, in forza della quale tutte le esposizioni del lavoratore durante la sua vita lavorativa hanno rilevanza fino al compimento dell’induzione. Il punto chiave, assunta l’applicazione della legge generale della teoria multistadio della cancerogenesi, ancorché ritenuta non universale, occorre accertare “se è sostenibile la tesi secondo cui aumentando la dose di cancerogeno (e dunque aumentando la intensità della esposizione ad amianto, sia sotto il profilo della durata che sotto il profilo della intensità) da un lato si incrementa l'incidenza del mesotelioma, dall'altro si abbrevia la durata della latenza con conseguente anticipazione dell'evento-morte”.
La Corte territoriale ha assunto come dato di partenza quello epidemiologico da cui si giunge alla conclusione che esiste un "rapporto di proporzionalità diretta tra esposizione ad amianto ed incidenza di mesotelioma e/o tumore al polmone, ovvero un aumento del numero delle morti all'aumentare dell'esposizione. Tali studi, ha aggiunto, sono confermati anche dagli studi-controllo citati dal prof. ma., spiegando attraverso le parole di questi perchè gli studi-controllo possono essere più efficienti di quelli di coorte (essi raccolgono un largo numero di casi in un arco di tempo relativamente breve; inoltre i casi sono caratterizzati da maggiore eterogeneità di esposizione rispetto ai membri di una coorte)".
La Corte di Cassazione richiama il documento di consenso degli oncologi italiani 3^ Italian Consensus Conference on Malignant Mesothelioma of the Pleura. Epidemiology, Public Health and Occupational Medicine related issues, per ritenere assodato il carattere scientifico della teoria multistadio della cancerogenesi, di cui in precedenza la monografia IARC e lo stesso Ministero della Salute, nella pubblicazione “Stato dell’arte e prospettive in materiali di contrasto alle patologie asbesto-correlate”, n. 15, maggio-giugno 2012 - Quaderni del Ministero della Salute.
Quest'ultimo sostiene "l’aumento dell’incidenza e l’accelerazione del tempo all’evento sono fenomeni inestricabilmente connessi. In ambito strettamente scientifico, dopo il contributo metodologico di Berry del 2007 la discussione in merito appare definita" (pag. 41), sicchè dunque la decisione della Corte di Cassazione, circa la conferma dell’effetto di accelerazione indotto da tutte le esposizioni in modo proporzionale alla loro entità, è un dato confermato.
La Corte di Appello e la stessa Corte di Cassazione precisano che "la scienza medica evidenzia che il processo carcinogenetico inizia con uno stato infiammatorio dell'ambiente respiratorio indotto dalle fibre di asbesto introdottesi nell'organismo; che questo stato si cronicizza a causa del ripetersi degli insulti infiammatori dando luogo a una condizione patologica (placche pleuriche o ispessimenti pleurici) che costituisce terreno fertile per quella che in seguito sarà la possibile prima mutazione genetica da cellula sana a cellula maligna" (pag. 25), e ciò perché le successive esposizioni alimentano l’infiammazione e ciò incide sull’angiogenesi, e quindi sullo sviluppo del processo tumorale (pag. 26 della sentenza) e per di più, bloccano il meccanismo della cd. clearance.
La Corte territoriale ha formulato la sua decisione in linea con tutta la letteratura scientifica, medica e biomedica, indipendente (Patologie ambientali e lavorative - MCS - Amianto e Giustizia, 2010), per cui il decesso per mesotelioma dei diversi dipendenti dello stabilimento siderurgico è imputabile alle condotte attive e omissive dei titolari delle posizioni di garanzia, a maggior ragione, perché elevata e non cautelata, e per questi effetti:
Con coerenza metodologica, la Corte è passata a verificare se con riferimento ai singoli casi e alle rispettive posizioni di garanzia, ci fosse la conferma del nesso causale e quindi sulla base della identificazione della condizione di rischio (mansioni, durata e natura dell’esposizione, assenza di fattori alternativi e decorso della malattia), nei diversi periodi, è giunta a formulare il giudizio sul nesso causale, sul presupposto che tutte le esposizioni successive al momento in cui la patologia è insorta sono (giuridicamente) concausa dell'evento, perchè abbreviano la latenza.
In ciò la Corte di Appello ha ritenuto di sorvolare sui principi di cui a Cass., IV sez. pen., n. 988/2003 -Macola-; e ancora di Cass., IV Sez. pen., n. 38991/2010, e ancora Cass., IV sez. pen., 33311/2012, ed ex multis, per cui rilevato ed applicato il processo acceleratore, ciò è di per sé sufficiente per confermare il nesso causale, ed ha invece ritenuto di formulare il giudizio con "valutazione della cinetica di sviluppo della neoplasia sulla base dello studio della sopravvivenza dei pazienti" (pag. 27 della sentenza).
In applicazione di tali indicazioni la Corte di Appello ha ritenuto di poter affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità degli odierni ricorrenti unicamente per le morti di quei lavoratori la cui esposizione era continuata sino a vent'anni prima della diagnosi clinica. Così, per esemplificare il percorso ricostruttivo seguito dalla Corte di Appello, per l' A. si è esclusa la responsabilità per il decesso di C.G. perché questo lavoratore aveva ricevuto la diagnosi di mesotelioma nel 1997; pertanto le esposizioni rilevanti erano state quelle sino al 31.12.1976; l'A. era stato vicedirettore dello stabilimento dal 1983" (pag. 28 sentenza di Cassazione).
Questo articolato motivazionale, di risoluzione selettiva per ogni singolo imputato, che la Corte territoriale giustifica con riferimento al principio del favor rei, secondo la Corte di Cassazione "lascia emergere una palese violazione delle regole del ragionamento probatorio che implica un dato di conoscenza per il quale il giudice è debitore della scienza; ed altresì il fraintendimento in ordine al ruolo che svolge l'incertezza in questi casi".
I ricorrenti dunque si insinuano in tale aporia logica della motivazione della sentenza di appello, per far valere la assenza di leggi scientifiche, per tale selezione e quindi l’illegittimità con riferimento ai principi dettati da Corte di Cassazione, IV sezione penale, 38991/2010 e Corte di Cassazione, IV sezione penale, 43786/2010, in ordine alla "valutazione del contributo reso dal perito", per il fatto che la soluzione non è supportata da evidenze scientifiche.
La Corte di Cassazione censura la sentenza perché contiene la valutazione acritica e non selettiva, in prospettiva dialettica, e di interlocuzione antagonistica (degli esperti) delle parti, in ciò coerentemente con Cassazione, IV sezione penale, 43786/2010 -richiamata a pag. 24 della sentenza in commento-, così che il mancato riferimento alle tesi dei consulenti tecnici dei ricorrenti, e a quelle dei consulenti del PM, costituisce il presupposto per l’accoglimento del ricorso.
La Corte, poi, fa riferimento all’applicazione della teoria multistadio della cancerogenesi, e di accertare "il momento dal quale il protrarsi dell'esposizione alla fibra non ha più rilievo causale (44 e s.)". Le doglianze dei ricorrenti si fondano sul presupposto che non risulterebbe "la prova in ordine agli effetti delle inalazioni successive all'insorgenza della malattia, facendo leva sulle risultanze delle consulente tecniche espletate dal prof. Pi.En. e dal prof. Ce.Ga.. Ancorchè non si tratti esattamente della medesima questione della identificazione del tempo di inizio della latenza vera, si tratta pur sempre di questione che con quella si interseca, contenendo in sè l'interrogativo in ordine alla collocazione nel tempo di quelli effetti, ove riconoscibili".
La Corte rimarca il fatto che nella motivazione non vi è "un solo riferimento alle tesi degli esperti dei ricorrenti e la Corte di Appello, si direbbe inevitabilmente, non ha potuto spiegare le ragioni per le quali ha ritenuto di fare proprie le conclusioni alle quali è pervenuto il prof. ma.. Sul punto si è limitata ad affermare, peraltro in forma intercalare, che quelli dell'esperto erano condivisibili rilievi".
Questa la ragione per il fatto che la sentenza "deve essere annullata, risultando che il giudice di merito ha omesso di giustificare la scelta della premessa maggiore del ragionamento probatorio, limitandosi a recepire le conclusioni del perito, senza operare alcuna delle verifiche richieste dalla giurisprudenza di questa Corte e senza dare conto di aver considerato, anche a quel fine, i contributi esperti offerti dalle parti" (pag. 29).
In più vi è un secondo aspetto, che ha portato la Corte ad annullare la sentenza di condanna.
Si fa riferimento alla c.d. latenza vera, e alle incertezze scientifiche, superate con la ricostruzione personale del CTU, contrariamente alle direttive impartite dalla giurisprudenza di legittimità, circa la ponderazione che deve avere il Giudice di merito di fronte alla c.d. scienza nuova.
I parametri enunciati non sono ritenuti esaustivi degli indici, ovvero non si propongono con una interna relazione gerarchica, e il giudizio non può essere la risultanza di una operazione aritmetica, "bensì esito di un apprezzamento complessivo di fattori che non devono presentare ogni volta in un determinato, predefinito grado … ma tanto implica anche che taluno degli indici può assumere un peso preponderante.
Come dimostra l'esperienza giudiziaria formatasi laddove i temi della prova scientifica vengono da più lungo tempo elaborati in parallelo alle acquisizioni dell'epistemologia, la necessità di valutare l'attendibilità della conoscenza trasferita nel processo penale dall'esperto non si pone soltanto nell'ipotesi di conoscenza scientifica, ricorrendo anche nell'ipotesi di prova tecnica, di sapere esperienziale di settore, cioè di cognizioni che non appartengono all'uomo comune (e quindi al giudice), ma a una cerchia più ristretta di soggetti, e che non scaturiscono dall'applicazione del metodo scientifico, nella sua attuale prevalente accezione".
È necessaria la verifica delle teorie scientifiche, nel caso di una tesi che si proponga come nuova, ovvero come teoria esplicativa originale, mai prima emersa all'orizzonte del dibattito scientifico (non interessa invece, in questa sede, l'ipotesi di una scienza nuova solo all'esperienza giudiziaria), a maggior ragione (così a pag. 30).
Proprio l’assenza di tale verifica inficia la logicità del percorso argomentativo, proprio alla luce della dimensione gradualistica degli indici e il carattere non aritmetico del giudizio permettono di dare ingresso, nel processo penale, soltanto a teorie che siano poste al vaglio della comunità scientifica, ovvero la cui scientificità può essere verificata secondo l’insegnamento della Corte (pag. 30).
La Corte, nell’annullare la sentenza, detta il principio con riferimento all’accertamento del nesso causale, avendo come punto di riferimento il secondo profilo per il quale è stata annullata la pronuncia (applicabilità di una c.d. teoria nuova):
"In tema di accertamento della causalità, ove vi sia necessità di fare ricorso al sapere scientifico, non è consentito l'utilizzo di una teoria esplicativa originale, mai prima discussa dalla comunità degli esperti, a meno che ciascuna delle assunzioni a base della teoria non sia verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo della attendibilità scientifica di essa e dell'affidabilità dell'esperto".
La Corte di Cassazione, nell’annullare la decisione della Corte di Appello, ha richiamato il suo precedente insegnamento (si veda per altra applicazione del principio Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 - dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri, non massimata sul punto -pag. 31), in forza del quale il giudizio sul nesso causale deve essere attinto sempre su base scientifica ed un eventuale contrasto deve essere risolto secondo i criteri epistemologici e non con quello del favor rei: "Una tesi scientifica è vera o non vera; non può essere vera rispetto ad altra perchè delle due la più favorevole all'imputato". Così la Corte di Cassazione nel motivare la decisione di annullamento.
Con riferimento al criterio adottato dalla Corte di Appello di Lecce, poiché sulla collocazione cronologica dell’inizio del periodo di latenza vera, esiste un’incertezza, la Corte avrebbe dovuto approfondire l’attendibilità della tesi del perito d’ufficio, anche alla luce delle censure che sono state mosse dai periti di parte, rispetto le quali non vi è stato uno scrutinio che fosse ritenuto congruo, con riferimento alle problematiche sollevate.
In sintesi, il tentativo innovativo della Corte di Appello di Lecce, di sviluppare su base logico matematica la “valutazione della cinetica di sviluppo della neoplasia sulla base dello studio della sopravvivenza dei pazienti" (pag. 27 della sentenza) il decorso e/o l’accelerazione del processo cancerogeno, risulta non coerente non solo con il criterio di elevata probabilità logica e di credibilità razionale.
Ma soprattutto risulta in contrasto con il precedente orientamento, che tenendo conto della capacità generalizzata di accelerazione e di aggravamento, aveva affermato la sussistenza del nesso causale, ex art. 41 c.p., con riferimento a tutte le condotte attive e omissive dei vari titolari delle posizioni di garanzia, a prescindere da una esatta rilevazione tecnico matematica (così Cassazione, IV sezione penale, 988/2003 e/o Cassazione, IV sezione penale, 33311/2012), poiché tutte le esposizioni rilevano, come chiarito da Cass., IV Sez. pen., n. 3615/2016, ragione per la quale, non rileva di quantificare esattamente l’incidenza delle singole esposizioni.
Su questa base, dunque, tenendo presente la specifica motivazione addotta dalla Corte territoriale, il fatto stesso che questo criterio di computo – una nuova strada per l’accertamento della responsabilità penale in materia di deceduti per mesotelioma da esposizione professionale – non fosse stato validato da evidenze scientifiche né attinto da una specifica oggettività e rilevabilità e riproducibilità, secondo il metodo scientifico galileiano, secondo gli imputati, ovvero non verificato secondo la Corte di Cassazione, ha determinato l’annullamento della decisione di condanna.
Ora dovrà pronunciarsi di nuovo la Corte di Appello di Lecce, la quale, a fronte della rilevanza di tutte le esposizioni, anche ai fini dell’accelerazione dei tempi di latenza, potrà confermare la condanna a condizione che non si avventuri in ipotesi matematiche, rispetto ad un processo cancerogeno non ancora del tutto esplorato circa i complessi meccanismi e per i quali però è certa, anche su base epidemiologica, la dose dipendenza e quindi la capacità acceleratoria di tutte le esposizioni.
Gli imputati si difendono sostenendo che la colpa non si identifica con la violazione delle regole cautelari e anzi le medesime erano state abrogate per effetto dell’art. 59 lett. b) del D.L.vo 277/91.
Sul punto gli imputati sono sconfessati nelle loro tesi poiché l’art. 59, lett. b) ("limitatamente all'esposizione alla polvere proveniente dall'amianto o dai materiali contenenti amianto, non si applicano il D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, artt. 4, 5, art. 18, comma 3, artt. 19 e 21", a sua volta abrogata dal D.Lgs. n. 81 del 2008) il venir meno degli obblighi che già nascevano dal menzionato D.P.R. n. 303 del 1956, artt. 20 e 21.
La Corte ritiene che "la più recente disciplina ha all'inverso meglio precisato e contenutisticamente arricchito il novero delle prescrizioni imposte per le attività che espongono il lavoratore all'amianto" (pag. 32). Sul profilo più strettamente soggettivo, ovvero di conoscenza o conoscibilità della capacità oncogena dell'amianto e della possibilità di poter adottare misure di prevenzione adeguate, la Corte precisa che non rilevano le cognizioni del singolo.
Perché la regola cautelare vale nei confronti di chiunque rivesta la posizione di garanzia, secondo la "migliore scienza ed esperienza del tempo ovvero tenendo presente l'homo ejusdem professionis et condicionis (cfr. per esplicazioni, Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010 - dep. 03/05/2010, P.G. in proc. Catalano e altri, Rv. 247015)", per cui si pone il tema della prevedibilità da parte dell’agente in concreto (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, Cantore, Rv. 255105).
La Corte sostiene che non rileva se tali norme prescrivessero di "evitare l'aerodispersione dell'amianto; ma è se di tale regola e degli effetti della sua violazione, la cui esistenza è stata acquisita, l'imputato avesse una ignoranza scusabile e se (passando al piano della prevenibilità) egli avesse la concreta possibilità di fare quanto sarebbe stato di sicuro effetto preventivo".
Si richiama Cassazione, IV sezione penale, 49215/2012, con la quale si ribadisce il principio per il quale vi fosse un divieto di esposizione ad amianto già prima dell’entrata in vigore della L. 257/92, a prescindere dalle soglie, insieme a Cassazione, IV sezione penale, 38991/2010, che afferma che in tema di amianto “l’obbligo del datore di lavoro di prevenzione contro gli agenti chimici scatta pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino predeterminati parametri quantitativi, ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriori abbattimenti” (così richiamando Cassazione, IV sezione penale, 3567/2000, “Hariolf”).
Sottolinea che, nella specie, ci fosse una risalente conoscenza del rischio amianto, e sul punto la Corte di Appello è stata esaustiva (pag. 308 e ss. Della sua sentenza, e per di più il motivo è aspecifico, per cui è rigettato.
Il fatto materiale e la sua componente psicologica sussistono a prescindere dai livelli espositivi, e a maggior ragione, “il datore di lavoro risponde del delitto di omicidio colposo nel caso di morte del lavoratore conseguita a malattia connessa a tale esposizione quando, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro” (Cass., IV Sez. pen., n. 5117/2008).
Infatti, il rischio amianto era conoscibile già da epoca risalente “trattandosi di valutazioni che ben si attagliano al caso in esame sul punto possono riportarsi, anche in questo caso, le considerazioni espresse in seno alla citata sentenza n. 33311: risponde a conoscenze comuni maturate in epoche anche assai lontane nel tempo che l'ingestione per via aerea di fibre, particene e polveri costituisce pericolo per la salute.
Da oltre un secolo si ha la diffusa, piena consapevolezza della specifica pericolosità dell'assunzione attraverso le vie aeree delle microfibre di amianto (R.D. 14 giugno 1909, n. 442, nell'ambito di norme a tutela dei fanciulli; L. 12 aprile 1943, n. 455, la quale introdusse l'asbestosi fra le malattie professionali). Pur vero che ai quei tempi era nota solo l'insorgenza dell'asbestosi, ma, di sicuro, la pericolosità della lavorazione del materiale in parola era ben nota” (Cass., IV Sez. pen., n. 49215/2012).
Sulla prevedibilità: “l'evidenziazione su basi divulgative affidabili della correlazione tra assunzione di polveri d'amianto e processi cancerogeni risale al 1964 (conferenza sugli Effetti biologici dell'amianto dell'Accademia delle Scienze, tenutasi a New York). Peraltro, nella detta occasione venne presentata da V.E. l'esperienza italiana. Lo stesso studioso nel 1966 e nel 1968, pubblicò in Italia su riviste scientifiche il proprio pensiero. La questione venne ripresa, con ampio approfondimento, in occasione del 34 congresso della Società Italiana di Medicina del Lavoro, tenutosi a Saint Vincent.
V'è, peraltro, da soggiungere che i primi studi dai quali emergeva la detta correlazione risalgono agli anni 30/40 e poi 50 del secolo scorso (in Germania). In Italia risalgono ai lontani anni 1955/1956 i primi approfondimenti resi pubblici da R., P., B., Ri., P., F. e M..
Le conclusioni erano del tutto concordanti: la sopravvivenza dopo la diagnosi era solitamente assai breve; l'intervallo tra l'inizio dell'esposizione e la comparsa della malattia era assai lungo; anche basse dosi erano sufficienti ad innestare il processo patologico; degli esposti solo taluni subivano la degenerazione cellulare; pur essendo vari i tipi di amianto, quasi sempre erano presenti fibre di anfibiolo e crisotilo; non si riscontrava alcuna apprezzabile causa alternativa. Ciò posto, non può assumersi che le conseguenze nefaste sulla salute derivanti dal contatto con le polveri d'amianto non fosse circostanza prevedibile” (Cass., IV Sez. pen., n. 49215/2012).
La stessa Suprema Corte, con riferimento alla prevedibilità: “in ogni caso, non par dubbio che la prevedibilità altro non significa che porsi il problema delle conseguenze di una condotta commissiva od omissiva avendo presente il cosiddetto modello d'agente, il modello dell'homo eiusdem condicionis et professionis, ossia il modello dell'uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, che importa l'assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la quale esige che l'operatore si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si aspetta (Sez. 4^, 1/71992, n. 1345, massima; più di recente e sullo specifico argomento qui in esame, sempre Sez. 4^, 1/4/2010, n. 20047).
Un tale modello impone, nel caso estremo in cui il garante si renda conto di non essere in grado d'incidere sul rischio, l'abbandono della funzione, previa adeguata segnalazione al datore di lavoro (sul punto, Sez. 4^n. 20047 cit.). Richiamando quanto poco sopra esplicitato, deve conclusivamente ribadirsi che ai fini del giudizio di prevedibilità deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione (Sez. 4^, 31/10/1991, Rezza, massima)." (Cass., IV Sez. pen., n. 49215/2012).
Sulla evitabilità: è di tutta evidenza che l’adempimento delle misure cautelari avrebbe abbattuto considerevolmente i livelli espositivi a polveri e fibre di amianto e ciò avrebbe inciso quantomeno sui tempi di latenza e sull’accelerazione, evitandola, e dunque con concreta possibilità di evitare l’evento, ovvero nel caso in cui l’evento non potesse essere evitato sulla scorta della inadeguatezza degli strumenti di prevenzione tecnica e protezione individuale, evidentemente il datore di lavoro avrebbe dovuto utilizzare materiali alternativi e dunque non vi può essere alcuna giustificazione di condotte che hanno provocato la morte di un essere umano, ciò in linea con i principi costituzionali e richiamati da Cass., IV Sez. pen., n. 38991/2010.
La Corte di Cassazione, infatti, con la stessa Sentenza n. 49215/2012, ha dettato i principi con riferimento alla componente psicologica del reato di omicidio colposo: “è, altresì, utile soggiungere che, come dettagliatamente chiarito da questa Corte (Sez. 4^, n. 20047/2010), il D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, stabilendo che, fermo restando il rispetto di tutte le forme di protezione individuale, fossero, comunque, vietate le lavorazioni, ove il livello di dispersione di microfibre di amianto fosse superiore a determinati parametri, non rese affatto lecito, al di sotto dei detti limiti, l'inalazione delle predette microfibre.
L'entrata in vigore della L. 27 marzo 1992, n. 257, con la quale si vietò definitivamente la lavorazione dell'amianto, poi, non individua affatto il momento iniziale nel quale si ebbe consapevolezza della pericolosità dell'amianto. La normativa, all'opposto, segna l'epilogo di un lungo cammino di conoscenza che, come si è chiarito, da decenni, aveva denunziato la specifica, elettiva pericolosità dell'amianto.
Il possesso di elevata competenza di settore, di studi adeguati, di approfondita conoscenza del concreto contesto lavorativo e del materiale trattato, la funzione apicale, le dimensioni aziendali, la possibilità di valersi di specifiche competenze, tali da far presupporre la sussistenza di condizioni sufficienti per cogliere la specifica, elevata rischiosità delle lavorazioni svolte, erano tali da non poter ingenerare dubbi di sorta sulla circostanza che le microfibre, di cui si impregnava radicalmente l'aria (risulta accertato l'uso di spruzzatori, utilizzati per la coibentazione, che creava una nuvola di polvere), fossero sicuramente nocive, ben oltre il rischio dell'asbestosi” (Cass., IV Sez. pen., n. 49215/2012).
Ne consegue, dunque, che la componente psicologica, con riferimento al reato di omicidio colposo, risulta integrata, per il fatto che i titolari delle posizioni di garanzia fossero a conoscenza del rischio e che lo potessero evitare utilizzando materiali alternativi, ovvero dotando le maestranze degli strumenti di prevenzione tecnica e protezione individuale, ovvero nel caso in cui tali strumenti risultassero inadeguati, di evitare proprio tali lavorazioni.
L’imputato si duole della presunta violazione dell’art. 589 2° co. c.p. anche in relazione all’art. 7 CEDU, per avere la Corte territoriale ritenuto sussistente l’aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, per avervi accomunato quella di malattia, e per di più in assenza di prevedibilità. Nel caso di specie il ricorrente argomenta sostenendo che non vi era una netta distinzione tra infortunio sul lavoro e malattia professionale, e così le norme di prevenzione sugli infortuni, di cui al D.P.R. 547/55, non sarebbero applicabili ai casi di malattia professionale.
La Corte richiama il contenuto della L. 689/81 in forza della quale nella modificazione del regime di procedibilità del reato di omissioni colpose, pur essendo stata reintrodotta la querela, fu mantenuta la ‘procedibilità di ufficio per i fatti di cui al 1° e 2° cpv. “commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale” (art. 590 co. 5° c.p.).
Si evitò di modificare il 2° cpv. con riferimento all’aggravante, ma tale disposizione sarebbe stata incongrua ove si volessero escludere le norme relative all’igiene sul lavoro, anche con riferimento al bene protetto e cioè alla salute. Quindi almeno dal 1981 -sostiene la Corte- era perfettamente prevedibile che il reato di lesioni colpose e quello per omicidio colposo fossero aggravati “anche nell’aver commesso il fatto con violazione delle norme sull’igiene sul lavoro” (pag. 34).
La Corte però, in questo caso, risolve richiamando la sua risalente giurisprudenza nella quale si afferma "in tema di reato colposo, per norme sulla disciplina per la prevenzione di infortuni sul lavoro vanno intese non soltanto quelle contenute nelle leggi specificamente dirette ad essa, ma anche tutte le altre che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi (Sez. 4, 7/3/1978, Sottilotta).
E ancora in quel medesimo torno di tempo era corrente l'interpretazione secondo la quale la locuzione norma sulla disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro", di cui agli artt. 589 e 590 c.p., va intesa come comprensiva non solo delle disposizioni contenute nelle leggi, specificamente dirette alla disciplina medesima, ma anche di tutte le altre che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che tendono, in genere, a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi (Sez. 4, n. 4477 del 14/12/1981 - dep. 27/04/1982, Galbiotti, Rv. 153473).
Si esclude sul punto la violazione del principio di affidamento contro improvvisi mutamenti dell'interpretazione giurisprudenziale (overruling), nei termini già espressi da Cassazione, Sez. 4, n. 25532 del 16/01/2019 - dep. 10/06/2019, PG c/ Abbona, perché in questo caso non vi è l’applicazione retroattiva dell'interpretazione giurisprudenziale di una norma penale, siccome avente un risultato interpretativo che non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la violazione è stata commessa (v. Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama e altri, Rv. 256584-01; in conformità, più recentemente, cfr. Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016, RG., P.C. e altro in proc. Tronchetti Provera, Rv. 267164-01; Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi e altro, Rv. 273876-01).
La Corte afferma dunque il seguente principio: "con riferimento alle circostanze aggravanti rispettivamente previste dall'art. 589 c.p., comma 2 e art. 590 c.p., comma 3, ai fini della verifica della prevedibilità al tempo della condotta della illiceità della stessa in ragione della esistenza di una disposizione di legge che rendeva l'atto punibile (art. 7 C.e.d.u.), la locuzione 'norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro', in essa leggibile, va intesa come riferentesi anche alle norme in materia di igiene del lavoro e non assume rilievo, al riguardo, la nozione di infortunio valevole ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 437 c.p., comma 2, nella definizione datane dalla giurisprudenza del tempo".
Su questo principio la Corte conclude: “facendo applicazione di tale principio al caso che occupa, non può realmente porsi in discussione che gli imputati fossero nella condizione di prevedere la più lata interpretazione giurisprudenziale propria dell'art. 589 c.p., comma 2 e art. 590 c.p., comma 3”.
L’imputato A. ritiene che la contestazione ex art. 437, co. 2, c.p., sia pure dichiarato già prescritto, gli sarebbe stato ascritto per "l’omessa vigilanza sull’uso dei dispositivi di protezione individuale e una inadeguata efficienza o manutenzione degli impianti di captazione delle polveri, laddove la norma unisce l’omessa collocazione di impianti e apparecchiature" è manifestamente infondato.
La Corte precisa che "all’imputato è stato ascritto di aver omesso l'installazione degli impianti di aerazione e di fornire ai lavoratori maschere respiratorie o altri dispositivi di protezione (pag. 319)", ed è pertanto infondata la prima censura. Con riferimento al secondo rilievo "si asserisce che all’art. 437 c.p., comma 2 non contempla le malattie-infortunio": tali contestazioni mosse dall’imputato sono del tutto infondate.
Le malattie asbesto correlate sono malattie-infortunio e in quanto tali l’art. 437 c.p., determina l’aumento della pena prevista dal 1° comma (Cassazione, Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016 - dep. 03/02/2017, P.G., P.C. in proc. Ferrentino e altri, Rv. 270382; Sez. 1, n. 350 del 20/11/1998 - dep. 14/01/1999, PG in proc. Mantovani ed altro, Rv. 212203; Sez. 1, n. 12367 del 09/07/1990 - dep. 14/09/1990, Chili, Rv. 185325). Sul punto, consegue l’infondatezza del ricorso per cassazione dell’imputato A..
Quanto al motivo concernente l'elemento soggettivo del reato, di cui all’art. 437 c.p., la censura è articolata sulla presunta non conoscenza dei rischi legati all’esposizione all’asbesto, e quindi non si può ritenere che abbia voluto colui che non conosce.
La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha chiarito che il reato ha natura dolosa, per cui richiede che l’agente, cui addebitare la condotta omissiva o commissiva, sia consapevole che la cautela che non adotta, o quella che rimuove, servano.
La Corte ribadisce che è confermata la "natura dolosa del reato di cui all’art. 437 c.p. richiede che l'agente, cui sia addebitabile la condotta omissiva o commissiva, sia consapevole che la cautela che non adotta o quella che rimuove servano (oltre che per eventuali altri usi) per evitare il verificarsi di eventi dannosi (infortuni o disastri); quel che rileva è la consapevolezza della idoneità dell'oggetto a creare la situazione di pericolo (cfr. Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006 - dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235665)".
Quindi per la configurabilità del dolo non rileva che avesse o meno consapevolezza che "l'omessa collocazione di impianti di aspirazione o di abbattimento delle polveri comportasse il rischio di contrarre una malattia mortale, essendo sufficiente la consapevolezza che da quella omissione poteva conseguire un infortunio (rectius: una malattia-infortunio); qual è, ad esempio, l'asbestosi, patologia la cui derivazione dall'inalazione delle fibre di amianto era nota da tempo ben più risalente". Ne consegue dunque il rigetto del ricorso di A. sul punto, allo stesso modo che del profilo relativo al trattamento sanzionatorio.
La Corte di Cassazione ha rigettato anche il ricorso del P.G., articolato su due motivi. Il primo motivo è la denuncia di illegittimità per riconducibilità della consumazione del reato al momento del decesso del lavoratore.
Il Procuratore Generale si duole del fatto che sia stata dichiarata la prescrizione del reato di cui all’art. 437, 2° co., c.p., sulla base della decorrenza del termine dalla insorgenza della malattia – infortunio, quando, invece, tale termine prescrizionale inizia a decorrere dalla morte della vittima, come evento che aggrava il reato.
La stessa Corte di Cassazione (pag. 37), non disconosce un qualche fondamento alle osservazioni del P.G.: "l'affermazione trova una qualche eco nella contestazione, che identifica l'evento aggravatore (che quella dell’art. 437 c.p., comma 2 sia circostanza aggravante è insegnamento costante di questa Corte: Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016 - dep. 03/02/2017, P.G., P.C. in proc. Ferrentino e altri, Rv. 270381) nel disastro costituito dall'insorgenza di malattie tumorali nei lavoratori dell'anzidetto stabilimento" ma aggiunge "e, nello specifico, la conseguente morte dei sotto indicati lavoratori)".
La Corte di Cassazione ritiene la ricostruzione giuridicamente errata, che muove dalla sovrapposizione dei distinti elementi del disastro e dell’infortunio. Si propongono due possibili eventi: il disastro e l'infortunio; quest'ultimo, nell'accezione giurisprudenziale corrente, comprende anche le cd. malattie-infortunio, alla cui classe appartiene anche la malattia asbesto-correlata (Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016 - dep. 03/02/2017, P.G., P.C. in proc. Ferrentino e altri, Rv. 270382).
La Corte di Cassazione rappresenta il disastro nella immutatio loci che determina pericolo comune alle persone (secondo una felice formula: il danno alle cose come fattore di pericolo alle persone), per cui consegue che il danno alle persone non rileva ai fini dell’integrazione del reato (cfr. ancora Sez. 4 n. 5273/2016), tanto che l’art. 437, co. 2, c.p. può concorrere con i reati di cui rispettivamente all'art. 590 c.p. e all'art. 589 c.p. (da ultimo, Sez. 4, n. 52511 del 13/05/2016 - dep. 12/12/2016, Espenhahn e altri, Rv. 269572).
L’infortunio, che è in primo luogo un accadimento per causa violenta, produce la lesione personale nella contestualità dell’esplicarsi, e ciò è tale anche per la c.d. malattia-infortunio. Il concetto di infortunio ai sensi dell’art. 437 c.p., è stato definito, al tempo della sua formulazione, con il riferimento al R.D. n. 1765 del 1935, art. 2 e del T.U. n. 1124 del 1965, art. 2, con richiamo alla causa violenta del danno che si è prodotto a carico dell’organismo umano.
Già la giurisprudenza di merito aveva messo in dubbio che la fattispecie penale, di cui all’art. 437 c.p., potesse essere circoscritta ai soli casi di infortunio (Trib. Padova 13.2.1978), cui fece seguito la dottrina penalistica che propose di intendere in modo autonomo il concetto di infortunio ai fini penalistici, rispetto alla matrice di derivazione assicurativa, tanto che venne impostato terminologicamente come "malattie-infortunio".
La Corte di Cassazione, pur mantenendo la differenza tra infortunio sul lavoro e malattia professionale, "ha riplasmato il concetto del primo, emarginando il connotato della causa violenta, almeno per quella sorta di tertium genus costituito dalle malattie-infortunio (comunque ricondotte alla nozione di infortunio). Esse risultano caratterizzate per l'essere causate da agenti esterni di varia natura (Sez. 1, n. 12367 del 09/07/1990 - dep. 14/09/1990, Chili, Rv. 185325): l'art. 437 c.p. allude non solo alle lesioni cagionate da agenti meccanico-fisici (infortuni), ma anche a tutte le lesioni derivanti da agenti esterni connessi all'ambiente di lavoro (malattie-infortunio).
Mentre rimangono escluse dall'applicazione della norma le malattie in senso stretto, ovvero le manifestazioni morbose non derivanti da agenti esterni. Il principio è stato ripreso e ribadito in una seconda decisione (Cass. 26.11.1996, Martini ed altri), nella quale è stata riconosciuta la sussistenza del reato in presenza di ipoacusia, definita come conseguenza dell'aggressione violenta e continua di agenti esterni nell'ambiente di lavoro (nonchè in Sez. 1, n. 350 del 20/11/1998 - dep. 14/01/1999, PG in proc. Mantovani ed altro, Rv. 212203); e non è mai stato ripudiato dalla copiosa giurisprudenza di legittimità che nell'ultimo quindicennio è intervenuta in tema di malattie asbesto-correlate e di malattie professionali più in generale".
La Corte di Cassazione, nel suo pregevole excursus, dimostra che la morte eventualmente seguita alla lesione da causa violenta o alla malattia infortunio non è ‘interna’ alla nozione di infortunio ai sensi dell’art. 437 co. 2 c.p., bensì è un evento esterno alla fattispecie tipica; un effetto dell’infortunio che il Legislatore non ritiene integri la fattispecie penale circostanziandola. In altre parole non è un elemento costitutivo del reato, il quale si configura di per sé, a prescindere dalla morte. La varietà della struttura di cui al 2° co. non sancisce la consumazione del reato, bensì la configurabilità della sola circostanza aggravante, senza che ciò costituisca un’ipotesi autonoma del reato (Cassazione, IV sezione penale 7941 del 19.11.2014, depositata il 23.02.2015).
Il Collegio ha ritenuto di condividere l’orientamento in base al quale nei delitti aggravati dall’evento il tempo di verificazione di questo segna il momento di loro consumazione, con decorrenza dal dì dell’evento e cioè del disastro/malattia-infortunio. Nel caso di specie l’evento aggravatore del diritto di cui all’art. 437 c.p., è rappresentato dalle malattie-infortunio, per cui il momento della consumazione coincide con l’epoca della verificazione della malattia infortunio/disastro, riconducibile alla condotta dell’agente di cui al 1° comma (cfr. Sez. 1, n. 2181 del 13/12/1994 - dep. 03/03/1995, Graniano ed altro, Rv. 200414).
L’evento si realizza quindi con "l'insorgenza della malattia; il suo progredire verso la morte può certo assumere rilievo sul piano della complessiva gravità del reato (trattandosi di conseguenza dello stesso), ma non muta la fisionomia dell'evento aggravatore, che si perfeziona solo che insorga la malattia-infortunio".
La Corte ritiene che il momento consumativo del reato di lesioni personali si configura con il momento dell’insorgenza della malattia (capo 4.2, pag. 39).
"Nel delitto di lesioni personali colpose derivanti da malattia professionale caratterizzata da evoluzione nel tempo, in particolare, si insegna che il momento di consumazione del reato non è quello in cui sarebbe venuta meno la condotta del responsabile causativa dell'evento, bensì quello dell'insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni, sicchè ai fini della prescrizione il dies commissi delicti va retrodatato al momento in cui risulti la malattia in fieri, anche se non stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente (Sez. 4, n. 37432 del 09/05/2003 - dep. 02/10/2003, Monti e altri, Rv. 225989; si trattava appunto di malattia professionale derivante da prolungata esposizione a polveri di amianto)".
Sul principio del favor rei, il "dies commissi delicti", ai fini del calcolo del maturarsi della prescrizione, deve essere retrodatato al momento in cui risulti comunque la malattia in fieri, anche se non stabilizzata (Sez. 4, n. 2522 del 08/01/1998 - dep. 27/02/1998, Croci, Rv. 210173, in motivazione).
Il patrimonio di conoscenze che la Corte di Appello ha ritenuto acquisito a riguardo della cancerogenesi del mesotelioma, e che si è esposto nella trattazione dei ricorsi degli imputati, ha quale implicazione logica che il momento di insorgenza della malattia deve farsi risalire all'inizio dell'esposizione (o, più verosimilmente, in un tempo prossimo ad esso).
"La Corte di Appello ha fatto propria la teoria che indica nel mesotelioma una malattia dose dipendente, la cui insorgenza coincide con l'inizio delle inalazioni della fibra. Ed invero, pur con l'approssimazione insita nella natura convenzionale di tali asserzioni, l'inizio dell'esposizione e quindi dell'inalazione delle fibre induce una modificazione cellulare che ben può farsi rientrare nel concetto di malattia, intesa come alterazione di natura anatomica da cui deriva un significativo processo patologico (Sez. 4, n. 22156 del 19/04/2016 - dep. 26/05/2016, P.C. in proc. De Santis, Rv. 267306).
Facendo coerente applicazione delle assunzioni scientifiche fatte proprie dalla Corte di Appello, l'evento malattia-infortunio che aggrava il delitto di cui all’art. 437 c.p. deve collocarsi temporalmente in prossimità dell'inizio dell'esposizione del lavoratore alla fibra nociva. Un tempo quindi addirittura più remoto rispetto a quelli della cessazione della condotta o dell'esposizione del lavoratore".
Tuttavia, non è senza rilievo che la esposizione del lavoratore perduri nel tempo. Ciò determina, facendo ancora applicazione delle premesse scientifiche ritenute acquisite dal giudice di merito, che al persistere della condotta tipica corrispondano ulteriori alterazioni di natura anatomica da cui deriva un significativo processo patologico, e quindi la malattia nel senso che si è sopra rammentato, e in questo caso soccorrono le altre norme del codice penale, prime fra tutte quelle di cui all’art. 590 c.p., ovvero 589 c.p..
La Corte di Cassazione dunque detta il seguente principio di diritto: "in materia di determinazione del dies a quo del termine di prescrizione del reato di cui all’art. 437 c.p., comma 2, ove l'evento aggravatore venga accertato essere l'infortunio, sub specie di malattia-infortunio, e segnatamente il mesotelioma asbesto-correlato, tale dies a quo coincide con un tempo prossimo all'inizio dell'esposizione all'agente nocivo; nel caso di esposizione durevole, deve farsi riferimento al più anteriore tra il tempo della cessazione dell'esposizione della persona offesa all'agente nocivo e il tempo della cessazione dell'imputato dalla posizione gestoria".
La Corte di Cassazione ritiene che pertanto la Corte territoriale abbia correttamente individuato il dies a quo del termine di prescrizione del reato di cui all’art. 437 c.p., comma 2 il più risalente tra il momento in cui l'imputato ha cessato la posizione di garanzia e la data di cessazione dell'attività lavorativa delle vittime ammalatesi.
Si conferma la rilevanza di tutte le esposizioni, e quindi del nesso di causalità sulla base della sufficienza della concausa e dell’equivalenza causale, e dunque del carattere universale della teoria multistadio della cancerogenesi, ovvero della dose dipendenza.
L’infiammazione cronica, causata da prolungata esposizione alle fibre di amianto, è il meccanismo cruciale dello sviluppo del mesotelioma (Inflammation in malignant mesothelioma - friend or foe?). Gli autori propongono il ricorso a marcatori dell’infiammazione, come fattori prognostici del Mesotelioma. David James et al. confermano il nesso in “Inflammation-Based Prognostic Indices in Malignant Pleural Mesothelioma Pinato”.
Altri dimostrano che scores basati sui markers di infiammazione come modified Glasgow Prognostic Score and Neutrophils/Lymphocites sono legati alla neo-angiogenesis e, quando elevati, anticipano e/o dimostrano prognosi negativa.
D’altra parte la stessa neo-angiogenesi (quindi la formazione di nuovi vasi indotta dal processo infiammatorio) induce crescita delle cellule di MPM e, inoltre, alti livelli di Vascular Endotheliale Growth Factor (VEGF) circolanti correlano con cattiva prognosi (Vascular endothelial growth factor is an autocrine growth factor in human malignant mesothelioma).
Le ulteriori evidenze sperimentali confermano scientificamente che l’infiammazione ha un ruolo cruciale, non solo nel tessuto tumorale del MPM, ma anche nel tessuto mesoteliale iperplastico (HP) quando si dimostra la somiglianza di miRNA tissutali espressi dal tessuto tumorale ed iperplastico e come questi miRNa siano legati all’ infiammazione (Analysis of microRNA expression signatures in malignant pleural mesothelioma, pleural inflammation, and atypical mesothelial hyperplasia reveals common predictive tumorigenesis-related targets).
Altri autori hanno dimostrato in eleganti modelli sperimentali come la soppressione di IL1beta (una citochina ad azione antinfiammatoria) non solo rallenta la carcinogensis del MPM nell’ animale cronicamente esposto all’amianto ma riduce anche l’aggressività del tumore e concludono: “this report provides experimental evidence implicating inflammation in a cancer whose etiology is connected with environmental exposure to a known carcinogen: asbestos” e “targeting inflammation as potential chemo-prevention strategy for cohorts chronically exposed to asbestos or other carcinogenic mineral fibers” (Inflammation-Related IL1β/IL1R Signaling Promotes the Development of Asbestos-Induced Malignant Mesothelioma).
Ancora “Aspirin delays mesothelioma growth by inhibiting HMGB1-mediated tumor progression” di H. Yang et al conferma che il mesothelioma ha origine da un prolungato processo infiammatorio. Un antinfiammatorio, come l’aspirina, può prevenire la trasformazione neoplastica e allungare la sopravvivenza in modelli animali.
Infine, nel lavoro "Inflammation precedes the development of human malignant mesotheliomas in a SCID mouse xenograft model", gli autori concludono: “several of these (inflammatory LM ) cytokines are produced in response to asbestos fibers, suggest that chronic inflammation may be perpetuated by mesothelial cells over the long latecy period”.
Non solo, lo stretto nesso causale tra infiammazione ed insorgenza di mesotelioma è talmente assodato da venire riportata persino sui siti ufficiali delle Societa scientiche come, tra altre, American Cancer Society (come pubblicato Nov 2018).
La persistenza dell’inalazione a fibre di amianto, come si è verificato nello stabilimento Italsider di Taranto, ed è stato accertato nel processo penale definito con la sentenza in commento, per effetto delle condotte attive e omissive di tutti i titolari delle posizioni di garanzia, determina:
Tali principi sono stati pienamente recepiti dalla recente sentenza della Cassazione Penale, IV Sezione, n. 45935/2019, che ha confermato che le condizioni per lo sviluppo della malattia si concretizzano fin dall’inizio dell’esposizione. A pagina 25 si legge: "che questo stato si cronicizza a causa del ripetersi degli insulti infiammatori dando luogo a una condizione patologica (placche pleuriche o ispessimenti pleurici) che costituisce terreno fertile quella che in seguito sarà la possibile prima mutazione genetica da cellula sana a cellula maligna”.
Pur non potendo definire quale sia la prima cellula neoplastica che abbia attivato il processo cancerogeno, comunque ed in ogni caso tutte le esposizioni ad amianto, proprio perché alimentano l’infiammazione che a sua volta si innestano nella degenerazione neoplastica, dimostra che tutti coloro che hanno esposto un soggetto a polveri e fibre di amianto, hanno contribuito a causare l’infiammazione che è la conditio sine qua non della comparsa del mesotelioma sia la maggior aggressività del nodulo maligno primario se tale stato infiammatorio è alimentato da successive esposizioni, ovvero anticipato i tempi di latenza e/o aggravato la patologia, e/o accelerato il decorso e quindi la morte della vittima.
Il Ministero della salute, nel quaderno n. 15 (maggio-giugno 2012) “Stato dell’arte e prospettive in materiali di contrasto alle patologie asbesto-correlate”, a pag. 41, si legge: "L’aumento dell’incidenza e l’accelerazione del tempo all’evento sono fenomeni inestricabilmente connessi. In ambito strettamente scientifico, dopo il contributo metodologico di Berry del 2007 la discussione in merito appare definita", per cui risulta confermato il fondamento della responsabilità penale di tutti coloro che hanno contribuito all’evento anche per anticipazione del tempo di latenza, cui va pertanto ascritto, e ricondotto, quindi con conferma del nesso causale (art. 41 c.p.).
È necessario osservare che l’iperplasia normativa, in materia di sicurezza sul lavoro e di strumenti previdenziali, anche quelli di prepensionamento per semplice esposizione ad amianto, in assenza di patologia asbesto correlata (art. 13 comma 8 L. 257/1992) e il sistema INAIL di indennizzo e di riconoscimento di vittima del dovere nel caso di servizio svolto per la Pubblica Amministrazione (art. 1, commi 563 e 564 L. 266/2005), e la tutela civilistico risarcitoria affidata al Giudice del lavoro, ovvero per i famigliari al Giudice civile, o alla costituzione di parte civile nel processo penale, segna il passo, con riferimento alla tutela della salute e dell’incolumità psicofisica e di efficienza del sistema.
I danni differenziali e complementari, oltre l’indennizzo INAIL, debbono essere corrisposti dal datore di lavoro, di cui si afferma la responsabilità prima di tutto contrattuale (artt. 1218, 1223 e 1453 c.c.) e poi extracontrattuale per lo svolgimento di attività pericolosa (art. 2050 c.c.), ovvero per violazione di obbligo di custodia (art. 2051 c.c.), ovvero aquiliana (ex artt. 2043 e 2059 c.c.), oltrechè per responsabilità civile da reato (ex artt. 589 c.p. in combinato disposto con gli artt. 185 e 187 c.p. e 2043 e 2059 c.c.), diretta e vicaria (ex artt. 1228 e 2049 c.c.). Le vittime, e in caso di decesso i loro famigliari, anche per i danni iure proprio possono esercitare l’azione civile nel processo penale, con la formalizzazione della costituzione di parte civile.
Nel procedimento civile, diversamente da quello penale, in tema di responsabilità contrattuale, l’onere della prova è a carico del datore di lavoro, il quale dovrà dimostrare di avere eseguito esattamente l’obbligo di sicurezza (con quelle misure “drastiche”, di cui a Cass., Sez. lav., n. 15561/2019) ed in caso contrario, risarcire i danni differenziali e complementari, per eventi dei quali è accertato il nesso causale, anche con la valorizzazione del riconoscimento INAIL (Cass., Sez. lav., n. 15165/2019); e in caso di decesso, con il diritto degli eredi legittimi ad ottenere la liquidazione di quanto maturato dal defunto, a titolo di risarcimento, oltre ai danni iure proprio ivi compresi quelli per perdita del rapporto parentale.
Così per quanto riguarda le vittime dell’amianto nel personale civile e militare di tutte le Forze Armate, che hanno diritto alle prestazioni previdenziali di vittima del dovere, con costituzione in favore dei superstiti in caso di decesso (art. 6, L. 466/80), oltre che alla liquidazione iure hereditario di quanto maturato, e l’integrale risarcimento di tutti i danni subiti dalla vittima e, in caso di decesso, anche dai famigliari iure proprio, secondo il principio dell’integrale ristoro (SS.UU. 26972/2008).
La tragica drammatica vicenda dei lavoratori dell’ILVA trova quindi, nella sentenza della Suprema Corte di Cassazione in commento, un ulteriore epilogo che suona come denegata giustizia: la conferma della prescrizione del reato di cui all’art. 437 c.p., l’annullamento delle condanne per il reato di omicidio colposo, pur nella conferma dell’applicabilità della teoria multistadio della cancerogenesi, e quindi della imputabilità dell’evento alle condotte attive e omissive dei titolari delle posizioni di garanzia.
Il presupposto del giudizio è reso sulla “valutazione della cinetica di sviluppo della neoplasia sulla base dello studio della sopravvivenza dei pazienti" (pag. 27 della sentenza), quale teoria c.d. nuova e non adeguatamente motivata e modificata, quando invece potevano essere percorse le strade proprie del concorso causale di tutte le esposizioni, senza una loro specifica determinazione e tenendo conto dell’art. 41 c.p. e della giurisprudenza più volte richiamata, induce a riflettere sulla scarsa utilità dello strumento penale anche nell’ottica civilistico risarcitoria, e a maggior ragione nella tutela della salute, per cui si deve agire in prevenzione.
Se uno scopo può avere il diritto penale, è quello di fornire o quantomeno suggerire strumenti di prevenzione o di dissuasione per evitare che si pongano in atto strumenti pericolosi che poi possono diventare dannosi, con il tragico epilogo di effetti reversibili, come la violazione della dignità e peggio ancora della salute e della vita della persona umana.
In un contesto in cui si discute se sospendere o meno la prescrizione e dunque prorogare sine die il corso del processo penale, le proposte dell’Osservatorio Nazionale Amianto e dell’Avv. Ezio Bonanni, nel corso dei lavori della Commissione amianto istituita dal Ministro dell’ambiente, Generale Sergio Costa, sono invece indirizzate alla prevenzione primaria, con strumenti tecnico normativi di semplificazione burocratica amministrativa, e finanziari.
Ci sono credito d’imposta, utilizzo dei fondi strutturali europei, e tutta una serie di altre misure che possano favorire la rimozione di questi materiali o la loro messa in sicurezza (prevenzione primaria) e lo sviluppo della ricerca scientifica e l’efficienza nella sorveglianza sanitaria e quindi la tempestività delle terapie idonee per alleviare le conseguenze dei danni biologici da amianto (prevenzione secondaria) ed in ultima analisi, la rilevazione epidemiologica, le prestazioni previdenziali e il risarcimento dei danni per le vittime (prevenzione terziaria).
Ed allora c’è da riflettere sul diritto penale del rischio, rispetto alla tradizione del reato di evento, o meglio, del delitto colposo per lesioni e morte dei lavoratori, ovvero degli stessi reati a tutela dell’incolumità pubblica che presuppongono, sempre e comunque, un rischio per la salute umana generalizzato ad un’intera collettività ed una tutela risarcitoria, che deve essere studiata con un intervento pubblico, attraverso un fondo, di modo da integrare la rendita INAIL o le altre forme di sostegno ed evitare quindi che la vittima o i loro famigliari, siano costretti ad estenuanti azioni giudiziarie, anche in sede penale con la costituzione di parte civile.
Per ritornare alla vicenda che qui ci occupa, meglio sarebbe stato se la Corte avesse percorso la via maestra del concorso e dell’equivalenza causale, evitando di voler traslare nel mondo giuridico del diritto e dell’affermazione della responsabilità penale, regole matematiche senza un’evidenza scientifica del conteggio, rispetto alla prova lampante, regina e scientifica della incidenza di tutte le esposizioni ad amianto, ai fini dell’insorgenza del mesotelioma e soprattutto della diminuzione dei tempi di latenza, di aggravamento della patologia e di accelerazione del suo decorso verso la fine inesorabile della morte.
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